Benvenuti al Villa Sofia di Palermo, dove l’attesa non è solo una virtù, ma una condanna. Giuseppe Barbaro, un signore di 76 anni in buona salute – a parte una frattura all’omero causata da una caduta casalinga – è entrato il 21 dicembre con un problema chiaro: “Serve un intervento chirurgico, ma facciamo con calma, tanto il Natale è lungo.”
Per tre giorni, Giuseppe ha assaggiato la rinomata ospitalità del corridoio del pronto soccorso. La spalla? Immobilizzata alla buona, perché in ortopedia non c’era posto. Quando finalmente il 24 dicembre si è liberato un letto, l’ottimismo era nell’aria: “Lo operiamo presto!” hanno detto. Peccato che “presto” al Villa Sofia significhi “mai”.
L’arte del “fai da te” ospedaliero
Le complicazioni non si sono fatte attendere. Immobilizzato dalla fasciatura e con un braccio non funzionante, Giuseppe non poteva alimentarsi. Ma per lo staff era “autonomo.” Tradotto: “Se hai fame, arrangiati.” Quando la figlia ha protestato, si sono limitati a ignorare la situazione fino al punto in cui la confusione mentale del paziente ha iniziato a palesarsi. Nel frattempo, l’unico supporto era una flebo, somministrata però solo quando le cose sono precipitate.
La febbre? Ci pensa il paracetamolo!
In un ospedale dove ogni problema sembra risolversi con il minimo sforzo, la figlia ha dovuto far notare che Giuseppe aveva la febbre. La risposta? Il sempreverde paracetamolo. Ma la febbre nascondeva un problema più serio: una polmonite bilaterale. Inutile dire che i medici si sono accorti della gravità della situazione solo quando era ormai troppo tardi.
Legato al letto: il picco dell’assistenza personalizzata
Come se non bastasse, Giuseppe ha anche avuto il privilegio di essere legato al letto con fasce di plastica. Perché? Forse qualcuno ha scambiato il paziente per Houdini. Solo dopo l’insistenza della figlia, i medici hanno avuto la brillante idea di slegarlo. Ma il danno ormai era fatto: le sue condizioni si deterioravano ogni giorno di più.
La ciliegina sulla torta: ipernatriemia e mancanza di terapia intensiva
Con un valore di sodio che schizzava a 178 – un numero che nemmeno la bilancia al supermercato legge – e una polmonite bilaterale in corso, i medici hanno deciso che Giuseppe non meritava il trasferimento in terapia intensiva. Troppo complicato? Troppo tardi? Fatto sta che il 6 gennaio è arrivata la notizia peggiore: Giuseppe non ce l’ha fatta.
Le scuse del primario
Il primario Davide Bonomo ha provato a mettere una pezza: “Non potevamo operarlo, era troppo debole.” Tradotto: “Abbiamo aspettato troppo, e alla fine la situazione ci è sfuggita di mano.” Ma la famiglia Barbaro non si accontenta di queste giustificazioni. Hanno presentato un esposto alla Procura di Palermo, che ora indaga sulle cause della morte.
Un triste epilogo in un contesto di disservizi
La morte di Giuseppe Barbaro non è un caso isolato. Il presidente della Regione, Renato Schifani, aveva visitato proprio il reparto di ortopedia pochi giorni prima, trovando pazienti in attesa per interventi chirurgici essenziali e vari disservizi. Ma come sempre, tutto sembra muoversi lentamente, tranne quando si tratta di tragedie.